Riduzione in schiavitù: rapporto con il delitto di sfruttamento del lavoro.
Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603 bis c.p.) è collocato nel Libro secondo, Titolo XII, Capo III e Sezione I del Codice penale.
È stato introdotto dalla L. n. 148 del 2011 con lo scopo di contrastare il reclutamento illegale di lavoratori da parte di intermediari (c.d. caporali) che, per conto di imprenditori e lucrando enormemente sulle retribuzioni, approfittano dello stato del bisogno dei lavoratori. Tale fenomeno criminale ha acquistato nel nostro Paese profili di onnipresenza in diversi settori produttivi, ma soprattutto nel comparto agro-alimentare.
L’art. 603 bis c.p. è stato poi riformulato con la L. n. 199 del 2016, che ha inserito nella fattispecie l’incriminazione dello sfruttamento da parte del datore di lavoro (e dell’utilizzatore), in modo da far acquisire un maggiore spazio di effettività alla norma incriminatrice. Infatti, prima del 2016, la repressione del lavoro forzato poteva trovare spazio esclusivamente all’interno dell’art. 600 c.p., come servitù mediante “prestazioni lavorative”. Di conseguenza, erano estranee alla fattispecie di servitù ex art. 600 c.p. quelle ipotesi di sfruttamento di esseri umani nelle quali essi stessi si offrivano, a causa del proprio stato di bisogno, per essere sfruttati in attività di durata temporale circoscritta, potendo porre fine agli abusi in loro danno semplicemente attraverso l’interruzione del rapporto lavorativo.
Il delitto, a seguito dell’ultima riformulazione, contempla due condotte autonome: la prima fattispecie punisce chiunque recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno del lavoratore (c.d. caporalato); la seconda fattispecie, invece, punisce chiunque utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione descritta nel comma precedente, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno.
Per quanto riguarda l’accertamento dello sfruttamento il legislatore ha fissato degli indici che muniscono l’interprete di linee guida per individuare in concreto la condotta di sfruttamento. Infatti, secondo la giurisprudenza più recente, il giudice può individuare autonomamente ulteriori condizioni suscettibili di dare luogo alla condotta di abuso del lavoratore (Cass. pen., sez IV, 11/11/2011, n. 7857), Si tratta, pertanto, di indici che non assurgono a livello di definizione esaustiva, lasciando all’interprete ampio margine per la loro valutazione in concreto. Tali indici sono descritti nello stesso art. 603 bis c.p.: A) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; B) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria e alle ferie; C) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; D) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
L’elemento fondamentale che caratterizza entrambe le fattispecie del delitto in esame è l’approfittarsi dello stato di bisogno della vittima.
Tale stato di bisogno comprende ogni situazione di svantaggio che limita la libertà di scelta della vittima e la rende succube della condotta del soggetto attivo, inducendola a contrattare in condizioni di inferiorità psichica tali da viziarne il consenso (Cass. pen., sez II, 13/11/2008, n. 46128). Pertanto, lo stato di bisogno è una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni lavorative particolarmente svantaggiate (Cass. pen., sez IV, 9/01/2024, n. 660). La giurisprudenza ha, altresì, rilevato la sussistenza dello stato di bisogno in ragione del fatto che le vittime sottoposte a condizioni di sfruttamento erano “non più giovani e non particolarmente specializzate e, pertanto, prive della possibilità di reperire facilmente un’occupazione lavorativa” (Cass. pen., sez IV, 4/03/2022, n. 7861). Quindi, l’approfittarsi dello stato di bisogno dei lavoratori può essere desunto anche dalla condizione di irregolarità degli stessi, che li rende disposti a lavorare in condizioni di disagio o di degrado (Cass. pen., sez V, 20/04/2018, n. 17939).
Lo sfruttamento è, inoltre, anche alla base del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù ex art. 600 c.p. Tale disposizione normativa è collocata nel Libro secondo, Titolo XII, Capo III e Sezione I del Codice penale e punisce chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativo, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento.
Il testo originario nel Codice del 1930 riconduceva la nozione di schiavitù al diritto di proprietà limitatamente allo sfruttamento di energie lavorative, pertanto, il reato in esame poteva porsi in essere solo se la condizione del soggetto passivo contemplasse prestazioni di vero e proprio lavoro (ad esempio non integrava il reato in esame la donna tenuta dal pascià nel proprio harem, in quanto trattasi di prestazione sessuale e non di una prestazione di vero e proprio servizio). Nel 2003 la fattispecie viene riscritta e la nozione di schiavitù è definita mediante l’esercizio su una persona di “poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà”; inoltre, ad essa viene affiancata, con equiparazione degli effetti sanzionatori, la nozione di servitù, definita mediante la riduzione o il mantenimento della vittima in uno stato di soggezione continuativa e di costrizione a una serie di attività tassativamente indicate e reiterate nel tempo. Infine, il legislatore del 2014 ha inserito fra le tipologie di prestazioni imposte dall’art. 600 c.p. la sottoposizione al prelievo di organi.
La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione può essere attuato mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità, approfittando di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica, psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
Tra il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù e quello di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro sussiste una relazione per quanto concerne l’interesse protetto (riconducibile alla dignità umana) e alla struttura delle due fattispecie, basate in entrambe le norme, sull’approfittare e lo sfruttare una situazione di necessità, bisogno o vulnerabilità del soggetto passivo al fine di sfruttarlo dal punto di vista lavorativo.
Per quanto concerne l’elemento oggettivo del reato ex art. 600 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù) due sono le condotte previste: A) l’esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà; B) la riduzione o il mantenimento di una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a condizioni che ne comportino lo sfruttamento.
La servitù è dunque fondata sul collegamento tra lo stato di soggezione e la costrizione, inoltre, l’esigenza che la vittima sia destinataria di una costrizione implica la consapevolezza dell’altrui signoria. Pertanto, la schiavitù si connota come uno stato della persona, mentre la servitù si caratterizza in una prospettiva utilitaristica di sfruttamento di una vittima posta in condizioni di continuo assoggettamento.
Il reato è a forma libera in quanto l’evento può essere realizzato con qualsiasi modalità purché la condotta sia reiterata.
Il delitto, tuttavia, è anche abituale, in quanto richiede una pluralità di condotte funzionali alla trasformazione dell’uomo libero in servo, e a forma vincolata, poiché la seconda parte del primo comma precisa attraverso quali mezzi può aversi la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione.
Il consenso dell’avente diritto, come causa di giustificazione, secondo parte della dottrina e la giurisprudenza minoritaria, dovrebbe essere inoperante nel caso di schiavitù, alla luce dell’indisponibilità del bene della libertà personale e, invece, escludere la tipicità del reato, in caso di servitù. Pertanto, sotto il profilo psicologico, lo schiavo può essere tale anche se non abbia percezione del proprio stato, mentre per il servo è necessaria la consapevolezza della propria condizione, come conseguenza dell’altrui condotta di assoggettamento e costrizione. Secondo tale orientamento, quindi, i reati di riduzione o mantenimento in schiavitù e in servitù, ex art. 600 c.p., sarebbero due fattispecie autonome (Cass., sez. V, 29/10/2018, n. 49514).
Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria non opera distinzione alcuna tra schiavitù e servitù in tema di consenso dell’avente diritto (Cass., sez. I, 29/09/2021, n. 35742; Cass., sez. V, 4/08/2021, n. 30538 e Cass., sez. III, 14/04/2021, n. 13815).
Inoltre, secondo autorevole giurisprudenza, ai fini della configurabilità del requisito dello stato di soggezione della persona offesa non è necessaria la totale privazione della libertà personale della medesima, ma soltanto una significativa compromissione della sua capacità di autodeterminarsi (Cass., n. 15662/20).
La condotta tipica del delitto ex art, 603 bis c.p. (sfruttamento del lavoro) consiste, invece, alternativamente nello svolgere attività di intermediazione di manodopera, ovvero nell’assumere, impiegare ed utilizzare manodopera sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno.
Pertanto, il reclutamento e l’impiego di manodopera, per essere penalmente rilevanti, devono avvenire approfittando dello stato di bisogno del lavoratore, sottoponendolo a condizioni di sfruttamento.
Nella fattispecie di sfruttamento lavorativo e in quella di riduzione in schiavitù il requisito dell’approfittare delle condizioni esistenziali e del bisogno della persona è elemento costitutivo del disvalore penale dell’offesa.
Tuttavia, nella riduzione in schiavitù la persona offesa viene ridotta in uno stato di soggezione continuativa determinato da comportamenti coercitivi, intimidatori, da condotte che approfittano di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica, psichica, di necessità, o mediante la promessa di dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla vittima e in conseguenza di ciò è costretta a prestazioni lavorative. Invece, nel delitto di sfruttamento lavorativo, è il lavoratore stesso ad accettare condizioni di lavoro non dignitose in quanto si trova in stato di bisogno.
In sostanza, lo sfruttamento connesso alla violazione di norme poste a tutela del lavoratore è accompagnato, nel caso di riduzione in schiavitù, dalla significativa compromissione della capacità di autodeterminazione del soggetto passivo, a causa dell’assenza di alternative esistenziali validamente percorribili (Cass., 17095/2022).
Inoltre, nella riduzione in schiavitù, lo stato di soggezione continuativo implica necessariamente comportamenti coercitivi o intimidatori; nello sfruttamento del lavoro, invece, l’uso di violenza o minaccia non è elemento costitutivo della fattispecie, ma circostanza aggravante, e si tratta comunque di comportamenti attuati all’interno di un rapporto costituitosi per volontà della vittima stessa e che questa può interrompere in qualunque momento, non recandosi più a lavoro (Cass. pen., Sez. V, 21/05/2020, n. 15662).
Dott. Valeriano Aquino